Vincenzo Paparelli, la tragedia

Vincenzo Paparelli, la tragedia

Quella che doveva essere una domenica di sport si è trasformata in un una maledetta domenica di tragedia. 28 Ottobre 1979: Vincenzo Paparelli, 33 anni, meccanico, sposato e padre di due figli, tifoso laziale, è stato ucciso sulle gradinate della curva Nord, da un razzo esploso dalla curva Sud. L’episodio è accaduto poco prima delle 14, quando gli spalti dell’Olimpico, a un’ora dall’inizio del derby, erano già gremiti di folla. L’ambulanza che di corsa cerca di raggiungere l’Ospedale Santo Spirito dove però il povero Paparelli giungerà cadavere.

Dal sito www.saladellamemoriaheysel.it

Ucciso allo stadio da un razzo lanciato da una curva all’altra

di Mario Bianchini

La vittima è un meccanico di 33 anni, padre di due figli, tifoso della Lazio – Il proiettile, dopo aver percorso oltre 250 metri, lo ha colpito al viso – Un secondo razzo è addirittura uscito dallo stadio dopo averlo attraversato tutto. Fermati due giovani – Inutili le perquisizioni all’ingresso anche se è stato sequestrato un “arsenale” impressionante.

ROMA – Il derby Roma-Lazio passerà tragicamente alla storia. Uno spettatore di 33 anni, Vincenzo Paparelli, sposato, padre di due figli, è stato ucciso sulle gradinate della curva Nord quasi al limite con la tribuna Monte Mario, da un razzo esploso dalla curva Sud che si trova al lato opposto dello stadio. Era un tifoso della Lazio. Ieri è andato alla partita con la tessera del fratello, tifoso della Roma, con il quale manda avanti una piccola officina nel quartiere di Primavalle. È la prima volta in Italia che un incontro di football viene funestato da un delitto. L’episodio è accaduto verso le ore 13 quando già gli spalti dell’Olimpico erano gremiti di folla. Sulla curva Sud si trovavano, secondo un’antica consuetudine, i tifosi romanisti, mentre il lato Nord era riservato ai sostenitori laziali. Le due fazioni stavano scambiandosi i soliti slogan sfottenti. La scintilla è scattata quando nel settore laziale è apparso un grosso striscione sul quale era scritto a lettere cubitali: “Rocca bavoso, i morti non resuscitano”. I romanisti replicavano con bordate di fischi. Improvvisamente dal punto dove giganteggiava un grosso drappo con scritto “commando ultrà curva Sud”, è partito un grosso razzo, che dopo aver attraversato sibilando tutto il campo, andava a colpire in pieno volto il Paparelli che si accasciava sanguinante al suolo. In un baleno dilagava il panico. La folla si precipitava verso le uscite mentre un altro proiettile, scagliato dallo stesso punto, oltrepassava addirittura il settore Sud, andando a finire su un albero fuori dello stadio. Intanto accanto al Paparelli era rimasta soltanto la moglie Vanda del Pinto, che gridava disperatamente. È trascorso qualche minuto prima che ci si rendesse conto della gravità dell’episodio. Poi sono arrivati i barellieri. L’ambulanza si faceva largo con la sirena spiegata, diretta verso l’ospedale di S. Spirito. Purtroppo il poveretto ha cessato di vivere lungo il tragitto. Uno spettatore ha raccolto il piccolo razzo insanguinato, che aveva ucciso il giovane e lo ha consegnato alla polizia. Solo dopo un quarto d’ora si spargeva fra il pubblico la notizia della morte del Paparelli. I sostenitori biancoazzurri si abbandonavano ad una reazione rabbiosa. Saltavano fuori bastoni, spranghe di ferro, biglie. Venivano infranti i vetri che dividono i settori delle tribune Tevere e Monte Mario. Alcuni esponenti dei circoli biancoazzurri si portavano davanti agli spogliatoi chiedendo la sospensione della partita. Il presidente della Roma, ing. Viola, pallido in volto, replicava con aria affranta che non si sentiva di assumersi la responsabilità di una decisione che avrebbe rischiato di creare incidenti ancora più gravi. Anche le autorità hanno ritenuto opportuno evitare di prendere iniziative con il pericolo di far precipitare la già precaria situazione. Quando le squadre sono entrate sul terreno di gioco, dalla curva Sud si è levato il coro di “assassini, assassini”. La curva Nord presentava larghi vuoti. Molti avevano lasciato lo stadio per paura e altri in segno di protesta aderendo all’invito lanciato dai capo-tifosi. Alcuni scalmanati si sono avvicinati al fossato e hanno cominciato a lanciare oggetti in campo mentre le forze dell’ordine si schieravano con i fucili lanciarazzi puntati. Il capitano della Lazio Wilson e Giordano, si avvicinavano agli spalti cercando di placare l’ira della folla.

L’arbitro D’Elia si guardava intorno disorientato. Partiva un razzo di color rosso che lo sfiorava ad una spalla. Nel trambusto generale, il direttore di gara decideva di fischiare l’inizio della partita. Continuava il lancio di proiettili di ogni genere. Il comandante dei carabinieri decideva di far entrare nel recinto della curva Nord drappelli di militi. Si accendeva qualche scontro. Ma fortunatamente non accadevano altri episodi gravi. Più tardi il capo del secondo distretto di polizia, dott. Marinelli, ha dichiarato che era stato effettuato il fermo di quattro giovani. Si sospetta che due di essi abbiano a che fare con l’episodio delittuoso. “Non sappiamo con esattezza quale tipo di arma abbia usato il teppista che ha sparato – ha aggiunto il funzionario – riteniamo che debba trattarsi di un lanciarazzi dotato di una carica di notevole potenza”.

Fonte: Stampa Sera


I barbari della domenica

di Giovanni Arpino

Ed è così venuta la tragica domenica in cui una famigerata “arma impropria” uccide un tifoso in uno stadio. È accaduto all’Olimpico romano, ridotto per l’ennesima volta, grazie agli incidenti, ad una sorta di grottesco, sanguinante Colosseo. Riconosciamolo a viso aperto: da almeno sette o otto anni abbiamo temuto questo fattaccio. Negli stadi si entra con ogni sorta di suppellettili, oggetti, bastoni, legni per bandiere che servono quali manganelli, chiavi inglesi, persino estintori rubati nelle stazioni ferroviarie (è capitato a Milano, per il derby). Le pistole lanciarazzi sono ormai normali come l’orologio al polso. I disgraziati, giovanissimi o meno, che si mascherano da guerriglieri, invadono settori via via più grandi. Sono arrivati persino a minacciare chi “tifa freddo”, chi non ulula come uno sciacallo. E così: il morto. Lo temevamo, abbiamo speso chilometri di parole sulle colonne dei giornali, in questi anni. Tutto inutile: la vittima c’è, ha un nome, suscita pietà infinita. È andato anche lui allo stadio per godersi novanta minuti di pedate e sperandole degne di festa, il giovane e sfortunato spettatore romano. È stato ucciso e non incolpiamo il destino, non tiriamo in ballo il Fato. Così come non si può accusare chi ha la sorveglianza degli stadi, polizia o addetti dei clubs calcistici: come è possibile frugare nelle tasche e sotto gli impermeabili di sessanta, ottantamila persone ? In un Paese qual è l’Italia, dove si muore troppo facilmente, oggi uccide anche lo spettacolo sportivo. Dobbiamo sporgerci su questa rovina civile, curarla, non attenuarla con frasi fatte o con speranze leggere. La colpa è in una certa figura di tifoso, che ignora tutto: il rispetto umano, la liceità agonistica, il valore del divertimento domenicale, e si affida solamente ai propri stimoli di violenza bruta, armandola con ogni sorta di strumenti. Non c’è legge, non c’è prevenzione, non c’è consiglio, non c’è predica, non c’è tutela che valgano. Bisogna riuscire, con decisioni rapide e senza guardare in faccia a nessuno, ad estirpare questa gramigna. Tutti gli “ultras” di tutte le curve vanno levati di peso dai loro posti. Lo sport è un “bene comune” che può e deve essere salvato da chi gli mangia le viscere, da queste frange barbare. O i cancelli resteranno chiusi per sempre.

Fonte: Stampa Sera


La morte su Roma

di Italo Cucci

28 Ottobre 1979: il giovane romano Vincenzo Paparelli viene ucciso all’olimpico. È l’inevitabile risultato di una campagna d’odio scatenata da teppisti incontrastati.

Vincenzo Paparelli, il ragazzo ucciso sugli spalti dell’Olimpico, era uno di noi. Uno di noi. Uno di noi è anche il giovane sciagurato che lo ha assassinato. Questo è il dato più sconvolgente della tragedia all’Olimpico che si è collocata sempre nella storia del calcio italiano e per definir la quale non bastano accenti retorici, parole di rabbia e di vergogna. Ecco la verità, nuda e cruda: ci stiamo ammazzando fra noi, e la morte è entrata nel gioco non di nascosto, accidentalmente, ma per scelta consapevole di tutti coloro che al gioco partecipano: dirigenti, giocatori, spettatori. Lo sapevamo che sarebbe finita così; lo sapevamo tanto bene che all’indomani della tragedia dell’Olimpico la morte di Vincenzo Paparelli è stata registrata come fatto ineluttabile (“la violenza dilaga: chi potrà fermarla ?”) che peraltro non avrà seguito alcuno per la tutela del nostro sport più popolare, che mai potrà darsi gli strumenti atti a difendersi da questa incredibile ondata di criminalità: su questo sono d’accordo tutti, magistrati, tutori dell’ordine, politici. Sulla lapide di Vincenzo Paparelli potremmo scrivere: “morto inutilmente”. VIOLENZA. Il discorso sul teppismo negli stadi è stato portato avanti da questo giornale con decisione, con veemenza, spesso con rabbia, e non ho quindi bisogno di ricordare al lettore quanto avevo scritto più volte, e addirittura la settimana scorsa, quasi risultando “profeta di sventure”. Certo, cercare di aprire gli occhi al prossimo, denunciando le nefandezze di un sistema che ormai ha coinvolto anche lo sport, può risultare fastidioso per chi non ha occhi per vedere né orecchi per intendere. Dibattere sul tema violenza, far tavole rotonde di “tecnici” e tifosi, suggerire provvedimenti, denunciare carenze: tutto risulta inutile quando manca un dato di fondo, ovvero la volontà politica di cambiare, cambiare nella vita di tutti i giorni per potersi garantire la serenità di due ore domenicali. Ecco, pensate pure che da queste parti si invoca la repressione nel Paese per star tranquilli allo stadio; ma se lo pensate siete in malafede: perché non è la passione sfrenata per la Roma o per la Lazio che arma la mano dell’assassino domenicale, è invece l’esempio della criminalità quotidiana – politica e comune – che fa adepti, che manda allo stadio insieme a noi, amanti di un gioco pacifico, anche gli assassini. Quelli che inneggiano al fascismo nella Curva Nord, quelli che si coprono con le ideologie dell’estremismo di sinistra nella Curva Sud sono criminali che fanno adepti fra i giovani, per lo più ragazzini, e li invitano a scannarsi in un derby calcistico all’ombra di bandiere ideologiche che sono soltanto immondi paraventi della disgregazione sociale, dell’impotenza degli educatori, dell’inutilità degli intellettuali predicatori di odio. Saluti romani, pugni chiusi, pitrentotto: quante volte abbiamo scritto di questi gesti, di queste imprese che denotano incultura, maleducazione, idiozia, asservimento a modelli fasulli di rivoluzione. E ogni volta, sconsolati, abbiamo dovuto chinare il capo davanti a una realtà immutabile e dirci: difendiamoci da soli. Ma come ? FRANCHI – Il 26 “febbraio 1975, dopo i “gravi incidenti verificatisi a San Siro in Milan-Juventus, il presidente federale Artemio Franchi scrisse un articolo per il “Guerino”, un articolo intitolato appunto “Difendiamoci da soli”. “Ci si è resi conto – scriveva Franchi quattro anni fa – che esiste un nuovo tipo di violenza, aggravata da premeditazione: c’è gente che va allo stadio già armata, già munita di oggetti e di un certo spirito aggressivo… È chiaro che quando si parte da casa con sbarre di ferro, biglie d’acciaio, pistole lanciarazzi o altre armi improprie, non si sa se l’arbitro Tizio o Caio darà il calcio di rigore a favore o a sfavore della propria squadra, ma si vuol comunque essere pronti per tale evenienza, o si vuole ad ogni costo sfogare la rabbia, la violenza covata in petto indipendentemente dagli episodi della gara e dal risultato della stessa”. Parole sante, alle quali Franchi faceva seguire la valutazione più drammatica: l’impotenza dell’organizzazione calcistica di fronte al “tifo organizzato”. I CLUB. “Parliamone – scriveva Franchi – di questi benedetti club: cominciamo col dire che le società calcistiche, a questo riguardo, hanno avuto la vista un po’ corta, se è vero che di tal fenomeno hanno considerato solo gli aspetti positivi, trascurando gli aspetti negativi di cui oggi si accorge”. Seguiva – in quell’articolo di quattro anni fa – un appello alle varie componenti del calcio, ai dirigenti, ai giocatori, ai tecnici, agli arbitri; anche ai giornalisti. Un appello evidentemente caduto nel vuoto, se è vero che oggi, dopo la tragedia, Franchi è costretto a ripeterlo e a dire, pieno d’amarezza: “Così si corre il rischio di vedere compromessa per sempre la credibilità del calcio. L’episodio è allucinante, inspiegabile. Presidente: allucinante sì, inspiegabile no. Lei che come noi va per gli stadi d’Italia a cercare due ore di svago, di distensione, non può non avere visto, mai, quei cartelli infami, quegli striscioni vergognosi che inneggiano alla violenza, alla morte; lei che legge i giornali, non può non “avere registrato l’escalation di violenza verbale negli scambi di… battute fra i tesserati. Eppure la Federazione e la Lega nulla hanno fatto per bloccare gli intemperanti e spezzare la spirale d’odio che si allarga ogni domenica sul capo di migliaia di innocenti Vincenzo Paparelli. E tutta l’Europa – alla vigilia del torneo dell’Ottanta – ci guarda, forse sbalordita, certo preoccupata. RIMEDI. Neanche questa volta possiamo o pretendiamo dare suggerimenti magicamente efficaci, e tuttavia – certi di non far torto a quegli appassionati che sanno bene quale veste esteriore dare al loro “tifo” – ci permettiamo di chiedere che dagli stadi scompaiano tutte le scritte inneggianti all’odio, tutte le bandiere che di quest’odio sono l’insegna, e che nei limiti del possibile all’ingresso delle arene sportive siano effettuati quei controlli minimi ai quali non potrà sfuggire un’arma come quella che ha ucciso in un pomeriggio di pace Vincenzo Paparelli. Uno di noi.

Fonte: Il Guerino Sportivo


Dal sito www.pagine70.com

Mi Chiamo Vincenzo Paparelli…

di Massimiliano Governi

Mi chiamo Vincenzo Paparelli, e sono morto il 28 ottobre del 1979. Forse qualcuno si ricorda ancora di me. Ero un uomo di trentatrè anni che un giorno fu ucciso allo stadio Olimpico da un razzo a paracadute di tipo nautico sparato da un tifoso ultrà della Roma. Quando sono stato colpito stavo mangiando un panino. Mia moglie Wanda cercò di estrarmi quel tubo di ferro dall’occhio sinistro, ma siccome il razzo bruciava ancora, finì per ustionarsi una mano. Il medico che mi ha prestato i primi soccorsi, dichiarò che nemmeno in guerra aveva visto una lesione così grave. Il giorno dopo tutti i giornali mostrarono una fotografia scattata qualche mese prima, che mi ritraeva in un ristorante insieme a mia moglie. Soltanto il quotidiano Il Tempo pubblicò l’immagine di me, riverso per terra, con la faccia insanguinata e l’orbita dell’occhio sinistro vuota. Sono stato la seconda vittima del tifo calcistico in Italia, la prima era un tifoso della Salernitana che nel 1963 morì in seguito a degli scontri scoppiati in tribuna con dei tifosi del Potenza. Tra le personalità del mondo sportivo il primo ad accorrere all’ospedale Santo Spirito, dove sono giunto ormai morto, è stato il Presidente del Coni Franco Carraro.

Mio cognato quando ha sentito alla radio il mio nome ha pensato a un caso di omonimia. Mio fratello quando ha saputo della disgrazia, ha avuto un forte senso di colpa perché mi aveva prestato la tessera e quel giorno allo stadio al mio posto doveva esserci lui. Mia moglie, che era accanto a me nell’ambulanza, per tutto il tempo mi ha pregato di non morire e mi ha tenuto stretta la mano. Dopo aver sbrigato tutte le formalità in questura e aver ritirato i documenti e i miei oggetti personali, ha avuto una crisi e ha cominciato a urlare. Sulle foto apparse sui giornali i giorni seguenti è ritratta insieme a sua madre che cerca di consolarla e le tiene un braccio sulla spalla. Ha la faccia stanca e scavata, e nei suoi occhi c’è qualcosa di terribile. Il mio nome e quello dei miei familiari sono comparsi sui quotidiani per tutta la settimana dopo l’omicidio e anche quella successiva, ma sempre con minore risalto. Io sono stato definito unanimemente un uomo normale e tranquillo, con un’unica passione, quella per la Lazio. Alcuni quotidiani hanno sottolineato più volte che avevo un’officina meccanica in società con mio fratello e vivevo in una moderna borgata romana chiamata Mazzalupo. Qualcuno ha scritto che avevo comprato il televisore a colori con le cambiali, e il mio unico lusso era un Bmw di seconda mano che tenevo in garage e lucidavo come uno specchio.

Dopo la mia morte, il capitano della Lazio Pino Wilson ha telefonato a mia moglie per porgerle le condoglianze. Anche il sindaco di Roma Petroselli ha telefonato, e si è offerto di pagare le spese del mio funerale e ha messo a disposizione della mia famiglia un assistente sociale. Il giocatore Lionello Manfredonia è andato a far visita ai miei familiari regalando a mio figlio più piccolo la sua maglietta con il numero cinque. Al mio funerale c’era tutta la squadra della Lazio, insieme all’allenatore Bob Lovati e al presidente Lenzini. I giocatori della Roma invece non hanno partecipato perché impegnati con la trasferta di Coppa Italia a Potenza, al loro posto la società ha inviato i ragazzi della Primavera. Alla cerimonia funebre hanno assistito migliaia di persone e per quel giorno è stato proclamato il lutto cittadino. La Fondazione Luciano Re Cecconi ha devoluto un milione in beneficenza alla mia famiglia. La giunta regionale del Lazio ha stanziato la somma di cinque milioni come segno di solidarietà. La Società Sportiva Roma ha fatto affiggere una targa in Curva Nord per ricordare la mia persona. Mio fratello Angelo ha proposto alle due società romane una partita Lazio-Roma mista cioè con i giocatori laziali e romanisti mescolati nelle due formazioni, ma alla fine non se n’è fatto niente. Per alcuni giorni sono stato oggetto di un acceso dibattito sulla violenza negli stadi. Il sindaco di Roma ha affermato che bisognava meditare su questa tragedia e discuterne in tutti i club sportivi e nelle scuole. Qualcuno ha proposto che fossero installati negli stadi degli impianti di televisione a circuito chiuso per individuare i tifosi violenti. Il capo degli arbitri, Giulio Campanati, ha chiesto l’abolizione della moviola in Tv. Per alcuni mesi sono state prese drastiche misure repressive: è stato proibito l’ingresso allo stadio di aste di bandiera, tamburi e persino di striscioni dai nomi bellicosi, e anche di spillette e toppe che potessero risultare offensive. Il pubblico doveva incitare la propria squadra solo con la voce e con le mani. Il mio nome è stato, a secondo dei casi, inneggiato e sbeffeggiato dai tifosi della Lazio e della Roma Sui muri della città ancora oggi campeggiano scritte che dicono «Paparelli, sarai vendicato», o «Paparelli non ti dimenticheremo», o anche «10, 100, 1000 Paparelli» o ancora, «Paparelli ti sei perso i tempi belli». In questi ultimi anni i giornali hanno parlato di me, soltanto all’indomani di un nuovo delitto avvenuto allo stadio. Nel 5° anniversario della mia scomparsa, i tifosi mi hanno ricordato prima di una partita con la Cremonese. Sul tartan, all’altezza della Tribuna Tevere hanno spiegato uno striscione con scritto «Vincenzo vive», mentre la curva intonava «28 ottobre Lutto Nazionale». Nel 10° anniversario è stato inaugurato il «Lazio Club Nuovo Monte Spaccato, Vincenzo Paparelli». L’anniversario della mia morte è stato commemorato dai tifosi laziali della Curva Nord per oltre quindici anni, poi da qualche tempo è calato il silenzio. Il torneo di calcio Vincenzo Paparelli è arrivato soltanto alla terza edizione, poi si è fermato per mancanza di finanziamenti. I lavori per le ristrutturazioni dello stadio Olimpico di «Italia ’90» hanno cancellato per sempre le curve di un tempo, e con loro la targa di marmo che mi ricordava. Sul motore di ricerca Yahoo digitando il mio nome e cognome racchiudendolo tra virgolette, il risultato dice sempre «Ignored». Nell’archivio del quotidiano il Messaggero, risulta che l’ultima volta che sono stato nominato è il 5 febbraio del 1995, in occasione di un breve articolo sul mio assassino. Il mio assassino si chiamava Giovanni Fiorillo, aveva diciotto anni ed era un pittore edile disoccupato. Subito dopo l’omicidio ha fatto sparire le sue tracce e si è dato alla latitanza.

Qualcuno diceva di averlo avvistato a Pescara, qualcun altro a Brescia, qualcun altro ancora a Frosinone, che chiedeva informazioni per comprare le sigarette. Dopo quattordici mesi di clandestinità, si è costituito. Nel 1987 è stato condannato in Cassazione per omicidio preterintenzionale: sei anni e dieci mesi a lui che aveva lanciato il razzo, quattro anni e sei mesi agli altri due complici che lo avevano aiutato a introdurre nello stadio l’ordigno e a utilizzarlo. Durante quel girovagare per l’Italia e per la Svizzera ha telefonato quasi tutti i giorni a mio fratello Angelo, chiedendo scusa e giurando che non voleva uccidere quel giorno allo stadio. Era un ragazzo come tanti, abitava a Piazza Vittorio, era patito della Roma. Sua madre lavorava al mercato, suo padre aggiustatore meccanico. Era gente del popolo, come me. L’articolo sul giornale diceva che Giovanni Fiorillo è morto il 24 marzo del 1993: forse per overdose, forse consumato da un brutto male. Mio fratello Angelo l’ha perdonato, così come l’hanno perdonato mia moglie e anche i miei figli. Una cosa è certa, quel ragazzo è stato sfortunato, così come lo sono stato io. Mi chiamavo Vincenzo Paparelli. Sono morto il 28 ottobre del 1979. Forse qualcuno si ricorda ancora di me.

Fonte: La Gazzetta dello Sport